venerdì 1 luglio 2011

QUINTO FOGLIO

Sentì dei passi sugli scalini, si irrigidì, poi la voce sommessa ed affannosa di Giuseppe. Manlio girò la grossa chiave e aprì uno spiraglio, riconobbe il viso color terra, guardò oltre le spalle del vecchio, spalancò la porta giusto il tempo perché Giuseppe entrasse, e subito la richiuse alle sue spalle. Si sentì rinfrancato da quella presenza.
-         Come va?
Manlio non rispose, fece un cenno con testa serrando le labbra per dire che andava così così.
-         Ho portato da mangiare e da bere.
Aveva con sé una cesta. Manlio sentì fame, erano due giorni che non toccava cibo.
Mangiarono, il vecchio seduto sulla cassa rivolta, Manlio sulla branda le spalle al muro, avvolte nelle coperte per non sentirne l’umido. Bevvero allo stesso fiasco, passandoselo più volte, un vino nero come l’inchiostro, pastoso e corposo che lasciava l’amaro in bocca, Manlio lo sentì scendere nello stomaco con una sensazione di caldo benessere, subito gli risaliva alla testa.
Il vecchio lo guardava con i suoi occhi scuri, le spalle curve i gomiti poggiati sulle ginocchia, le mani intrecciate. Giuseppe osservava Manlio con sguardo interrogativo aspettando che parlasse di sé, invano.
-         Sembra ch’egli americani siano vicini.
Certo anche Giuseppe aveva una sua storia di raccontare, aveva dei figli, forse ancora moglie, una donna tutta vestita di nero, con le cosce gonfie dalla fatica nei campi, i fianchi sformati dagli anni e dalle gravidanze, le rughe, i capelli bianchi tirati sulla nuca, forse coperti da un fazzoletto, una donna che in silenzio aveva trascorso la sua vita tra casa e i campi, Come si erano conosciuti Giuseppe e la moglie?
-         Certo – proseguiva Giuseppe – non possiamo aspettare che arrivino, bisogna fare qualcosa prima.
Ad un ballo, si forse ad ballo, di quelli di campagna, una pedana di legno, pochi strumenti forse solo una fisarmonica, il vino. Doveva essere alto Giuseppe ed anche bello, spalle larghe, occhi neri e capelli ricciuti da meridionale.
-         Certo non è la stessa cosa se ci libriamo da soli o aspettiamo inerti l’arrivo degli alleati. Lo capisci vero?
Doveva avere avuto all’epoca poco più di vent’anni, quanti anni fa forse trenta, quaranta, forse nello stesso periodo che  io vedevo la luce.
Il senso del tempo che passava gli diede un vuoto allo stomaco, sempre quella sensazione di voler fuggire. Fece un lungo sorso dal fiasco, sentì l’odore della paglia umida del fondo del fiasco. Quante cose erano accadute in quei decenni. Guardò Giuseppe e solo allora si rese conto che stava parlando, sembrava ebbro.
-         Parlami della guerra – gli chiese – non di questa dell’’altra, l’hai fatta vero?
-         Che schifo – fece il gesto di sputare.
Si levò dalla cassa e si sedette sul letto, Manlio gli sentì il fiato di vino.
-         Però era diversa, in un certo senso più umana, le famiglie non c’entravano. Eri solo al fronte con i tuoi compagni. Era un inferno, il fango, i topi grandi come gatti, e i pidocchi terribile un martirio. E la prima volta che ammazzi qualcuno ti resta qui.
Nel buio ormai fitto Manlio non potè vedere il gesto del vecchio pensò avesse indicato il cuore o forse la testa.
La voce sussurrata ed impastata di Giuseppe continuò.
-         La prima volta che ho ficcato la baionetta nel fegato di un ragazzo, poco più di un ragazzo. Certo anch’io lo ero, un ragazzo, e se non l’avessi ucciso, sarebbe stato lui ad uccidere me. Un attimo, qualcosa passò tra noi. Non scorderò il suo sguardo di fanciullo sorpreso, si piegò sulle ginocchia senza un grido, si afflosciò sulla baionetta senza un lamento.
Erano seduti di fianco, Manlio non poteva scorgere il viso di Giuseppe, né cercò di guardarlo, immaginò che piangesse.
-         Avrei voluto che gridasse, che morisse subito. Gli urlavo muori! Oppure urla, insultami. Non riuscivo a tirar fuori la baionetta dalla sua pancia. Poi la strappai con forza, solo allora il suo sangue mi colpì. Cadde in ginocchio con gli occhi aperti stupiti. Per tre giorni ho vomitato, mangiavo e vomitavo.
Seguì silenzio, tanto che Manlio temette che Giuseppe si fosse addormentato. Cercò nel buio gli occhi del vecchio, li trovò che fissavano l’oscurità, forse rivedeva gli occhi del ragazzo nemico.
Adesso avrebbero la stessa età, una moglie anch’egli, forse dei figli. O forse un figlio lo ha avuto e combatte con i tedeschi, un ufficiale, le loro strade si sono rincontrate e non lo sanno.
Pensò a suo padre che non era voluto andare in guerra. Quanto era costata quella decisione alla famiglia, la solitudine, additato a scuola dai compagnia, commiserato dalla maestra.
Né visti né vincitori. O meglio vinceranno i padroni di tutte le nazioni, perderanno i poveri a qualsiasi nazionalità appartengano. Già ma il giorno dopo a scuola quando la mestra darà la notizia che il papà o il fratello maggiore di un mio compagno di scuola non tornerà più, è morto da eroe. Quando sentirò i singhiozzi soffocati sui quaderni, mi rinfacceranno la codardia di mio padre, ed io non avrò la forza di gridare le tue ragioni. Di dire che anche tu paghi per le tue scelte. Che la galera, la miseria, la solitudine, le fatiche della mamma sono peggiori della morte. Vorrei chiede alla maestra se è giusto che nello stesso momento in un'altra nazione, in un’altra scuola, in una lingua diversa si sta commemorando un altero eroe, un eroe nemico, forse con le stesse parole.
Questo è ciò che avrebbe voluto dire e che non disse mai.
-         Poi l’abitudine ad uccidere ti prende e prese anche me.
Adesso capisco le tue ragioni. Ti sento ancora parlare in me, mi cammini dentro, il tuo passo è pesante e mi fa male, io sono un piccolo sentiero che anela ad ampi spazi ma ne ha timore allo stesso tempo, il tuo passo è saldo, ma fa fatica a farsi strada tra alte erbe e rovi di spine. Forse latri verranno dopo di te ed il sentiero si spianerà fino a divenire una grande strada.
-         Ho ucciso tanto da meritarmi una medaglia.
Per te babbo niente medaglie, era difficile amarti ma ti amavamo.
-         Avrei preferito non averne di medaglie.
La tua solitudine l’hai lasciata a me. L’ho tenuta in serbo. Vorrei prendere tutte le solitudini del mondo così che non ne resti più per gli altri. Questa è la guerra della solitudine. Ogni guerra è il trionfo della solitudine. Milioni di uomini soli che lottano contro altri milioni di uomini soli.
-         Dopo infiniti atti di valore tornava al reparto.
Eppure quando la solitudine sembra trionfare, è proprio vero che ogni cosa nasconde in sé il suo opposto,  quando la solitudine sembra trionfare, si fa strada una nuova umanità, una nuova solidarietà. Riprende la lotta tra il bene e il male, nettamente distinti, o da una parte o dall’altra, così come tu babbo credevi fosse sempre.
-         E cosa dirti di Caporetto. Gli ufficiali che scappavano, i sodati lasciati a sé stessi.
Ti ricordi Addio Lugano? Non l’ho mai sentita cantare da te, tu la fischiettavi soltanto. Poi dai tuoi compagni in quel modo triste e nostalgico, al tuo funerale, i cavalieri erranti son trascinati al nord. Quante volte avrei voluto tenerti vicino e quante volte negli ultimi anni della tua  vita avrei preferito vederti trascinare in catene, piuttosto che vederti morire  lentamente, gtroppo malato e solo per far paura ai fascisti. Il confino per te sarebbe stato un segno vitale, ti avrebbe tenuto in vita per anni.
-         Quanti soldati fucilati, bastava avessi un accento strano.
La natura è parta di noi stessi. Mai strappare un filo d’erba se non è necessario alla nostra esistenza. Ricorda. Quel tuo “Ricorda” detto fra due pause, dolce e forte. Anche la morte è vita, non c’è alcun diaframma da abbattere , non è una strada che si interrompe. La vita continua negli altri, non muori se gli altri continuano a vivere. Poi a distanza di giorni, a volte di settimane riprendevi il discorso come se l’avessi interrotto un attimo prima, forse mi davi il tempo per ripensare e riflettere sulle tue parole. Qual è il senso del mito di Noè e della sua arca.
Noè   è l’umanità. Ti ascoltavo incantato, parlavi pacato e trasmettevi un senso caldo di serenità. L’uomo salva tutti gli animale per salvare se stesso, un destino comune lega tutti gli essere viventi. Com’è bella l’immagine di tutta la natura chiusa per un breve periodo in uno spazio ristretto. Le lotte, necessaria alla sopravvivenza, vengono messe da parte, c’è un unico nemico da battere.
-         Morti, quanti ne ho visti nella mia vita.
La morte ci ritornavi sovente negli ultimi solitari anni della tua vita, ne parlavi pacatamente. Ti interrogavi, forse ti preparavi. Non bisogna pensare molto all’al di là, dicevi, si rischia di scordarsi dei questioni di questa vita.
Giuseppe si era addormentato col capo poggiato al muro e reclinato sulla spalla, la bocca aperta russava. Manlio gli allungò la coperta sulle gambe e si raggomitolò alla meglio cercando spazio per le gambe. La luna filtrava attraverso il finestrino, mandava bagliori nel catino con l’acqua. Non era prudente che il vecchio andasse via. Doveva essere una notte chiara, con la luna molta alta nel cielo, vento e grosse nuvole bianche spazzate via, difatti il riflesso della luna a tratti spariva.
Ricordava una sera simile, una delle ultime trascorse col babbo. Erano seduti sul muretto fuori casa, dall’interno la mamma sbrigava le ultime incombenze della giornata. Lisa era già andata. Un grosso cane randagio comparso d’improvviso l’aveva spaventato.
-       Non temere. Aveva detto Arturo.
Manlio, come per giustificare la sua paura – E' brutto disse.
-       Nulla è brutto in natura. Il brutto è una categoria inventata dai potenti.
Seguì il solito lungo silenzio, inseguiva nel cielo tra le nubi un mondo diverso. Manlio cercava di riflettere su quelle parole, ma non riusciva a far altro che ripeterle dentro di sé senza riuscire a dare un senso.
- Perché se è contro il popolo – Manlio parlava del fascismo – tanta gente anche povera gente è con loro?
Silenzio e conflitti nella sua anima, anche il silenzio era una risposta.
-       A noi – diceva poco dopo, rafforzando quel noi – tocca tenere accesa questa fiamma. Guai a farla spegnere, un giorno dovremo renderne conto a tutti, anche a chi oggi è con loro.