venerdì 1 luglio 2011

QUINTO FOGLIO

Sentì dei passi sugli scalini, si irrigidì, poi la voce sommessa ed affannosa di Giuseppe. Manlio girò la grossa chiave e aprì uno spiraglio, riconobbe il viso color terra, guardò oltre le spalle del vecchio, spalancò la porta giusto il tempo perché Giuseppe entrasse, e subito la richiuse alle sue spalle. Si sentì rinfrancato da quella presenza.
-         Come va?
Manlio non rispose, fece un cenno con testa serrando le labbra per dire che andava così così.
-         Ho portato da mangiare e da bere.
Aveva con sé una cesta. Manlio sentì fame, erano due giorni che non toccava cibo.
Mangiarono, il vecchio seduto sulla cassa rivolta, Manlio sulla branda le spalle al muro, avvolte nelle coperte per non sentirne l’umido. Bevvero allo stesso fiasco, passandoselo più volte, un vino nero come l’inchiostro, pastoso e corposo che lasciava l’amaro in bocca, Manlio lo sentì scendere nello stomaco con una sensazione di caldo benessere, subito gli risaliva alla testa.
Il vecchio lo guardava con i suoi occhi scuri, le spalle curve i gomiti poggiati sulle ginocchia, le mani intrecciate. Giuseppe osservava Manlio con sguardo interrogativo aspettando che parlasse di sé, invano.
-         Sembra ch’egli americani siano vicini.
Certo anche Giuseppe aveva una sua storia di raccontare, aveva dei figli, forse ancora moglie, una donna tutta vestita di nero, con le cosce gonfie dalla fatica nei campi, i fianchi sformati dagli anni e dalle gravidanze, le rughe, i capelli bianchi tirati sulla nuca, forse coperti da un fazzoletto, una donna che in silenzio aveva trascorso la sua vita tra casa e i campi, Come si erano conosciuti Giuseppe e la moglie?
-         Certo – proseguiva Giuseppe – non possiamo aspettare che arrivino, bisogna fare qualcosa prima.
Ad un ballo, si forse ad ballo, di quelli di campagna, una pedana di legno, pochi strumenti forse solo una fisarmonica, il vino. Doveva essere alto Giuseppe ed anche bello, spalle larghe, occhi neri e capelli ricciuti da meridionale.
-         Certo non è la stessa cosa se ci libriamo da soli o aspettiamo inerti l’arrivo degli alleati. Lo capisci vero?
Doveva avere avuto all’epoca poco più di vent’anni, quanti anni fa forse trenta, quaranta, forse nello stesso periodo che  io vedevo la luce.
Il senso del tempo che passava gli diede un vuoto allo stomaco, sempre quella sensazione di voler fuggire. Fece un lungo sorso dal fiasco, sentì l’odore della paglia umida del fondo del fiasco. Quante cose erano accadute in quei decenni. Guardò Giuseppe e solo allora si rese conto che stava parlando, sembrava ebbro.
-         Parlami della guerra – gli chiese – non di questa dell’’altra, l’hai fatta vero?
-         Che schifo – fece il gesto di sputare.
Si levò dalla cassa e si sedette sul letto, Manlio gli sentì il fiato di vino.
-         Però era diversa, in un certo senso più umana, le famiglie non c’entravano. Eri solo al fronte con i tuoi compagni. Era un inferno, il fango, i topi grandi come gatti, e i pidocchi terribile un martirio. E la prima volta che ammazzi qualcuno ti resta qui.
Nel buio ormai fitto Manlio non potè vedere il gesto del vecchio pensò avesse indicato il cuore o forse la testa.
La voce sussurrata ed impastata di Giuseppe continuò.
-         La prima volta che ho ficcato la baionetta nel fegato di un ragazzo, poco più di un ragazzo. Certo anch’io lo ero, un ragazzo, e se non l’avessi ucciso, sarebbe stato lui ad uccidere me. Un attimo, qualcosa passò tra noi. Non scorderò il suo sguardo di fanciullo sorpreso, si piegò sulle ginocchia senza un grido, si afflosciò sulla baionetta senza un lamento.
Erano seduti di fianco, Manlio non poteva scorgere il viso di Giuseppe, né cercò di guardarlo, immaginò che piangesse.
-         Avrei voluto che gridasse, che morisse subito. Gli urlavo muori! Oppure urla, insultami. Non riuscivo a tirar fuori la baionetta dalla sua pancia. Poi la strappai con forza, solo allora il suo sangue mi colpì. Cadde in ginocchio con gli occhi aperti stupiti. Per tre giorni ho vomitato, mangiavo e vomitavo.
Seguì silenzio, tanto che Manlio temette che Giuseppe si fosse addormentato. Cercò nel buio gli occhi del vecchio, li trovò che fissavano l’oscurità, forse rivedeva gli occhi del ragazzo nemico.
Adesso avrebbero la stessa età, una moglie anch’egli, forse dei figli. O forse un figlio lo ha avuto e combatte con i tedeschi, un ufficiale, le loro strade si sono rincontrate e non lo sanno.
Pensò a suo padre che non era voluto andare in guerra. Quanto era costata quella decisione alla famiglia, la solitudine, additato a scuola dai compagnia, commiserato dalla maestra.
Né visti né vincitori. O meglio vinceranno i padroni di tutte le nazioni, perderanno i poveri a qualsiasi nazionalità appartengano. Già ma il giorno dopo a scuola quando la mestra darà la notizia che il papà o il fratello maggiore di un mio compagno di scuola non tornerà più, è morto da eroe. Quando sentirò i singhiozzi soffocati sui quaderni, mi rinfacceranno la codardia di mio padre, ed io non avrò la forza di gridare le tue ragioni. Di dire che anche tu paghi per le tue scelte. Che la galera, la miseria, la solitudine, le fatiche della mamma sono peggiori della morte. Vorrei chiede alla maestra se è giusto che nello stesso momento in un'altra nazione, in un’altra scuola, in una lingua diversa si sta commemorando un altero eroe, un eroe nemico, forse con le stesse parole.
Questo è ciò che avrebbe voluto dire e che non disse mai.
-         Poi l’abitudine ad uccidere ti prende e prese anche me.
Adesso capisco le tue ragioni. Ti sento ancora parlare in me, mi cammini dentro, il tuo passo è pesante e mi fa male, io sono un piccolo sentiero che anela ad ampi spazi ma ne ha timore allo stesso tempo, il tuo passo è saldo, ma fa fatica a farsi strada tra alte erbe e rovi di spine. Forse latri verranno dopo di te ed il sentiero si spianerà fino a divenire una grande strada.
-         Ho ucciso tanto da meritarmi una medaglia.
Per te babbo niente medaglie, era difficile amarti ma ti amavamo.
-         Avrei preferito non averne di medaglie.
La tua solitudine l’hai lasciata a me. L’ho tenuta in serbo. Vorrei prendere tutte le solitudini del mondo così che non ne resti più per gli altri. Questa è la guerra della solitudine. Ogni guerra è il trionfo della solitudine. Milioni di uomini soli che lottano contro altri milioni di uomini soli.
-         Dopo infiniti atti di valore tornava al reparto.
Eppure quando la solitudine sembra trionfare, è proprio vero che ogni cosa nasconde in sé il suo opposto,  quando la solitudine sembra trionfare, si fa strada una nuova umanità, una nuova solidarietà. Riprende la lotta tra il bene e il male, nettamente distinti, o da una parte o dall’altra, così come tu babbo credevi fosse sempre.
-         E cosa dirti di Caporetto. Gli ufficiali che scappavano, i sodati lasciati a sé stessi.
Ti ricordi Addio Lugano? Non l’ho mai sentita cantare da te, tu la fischiettavi soltanto. Poi dai tuoi compagni in quel modo triste e nostalgico, al tuo funerale, i cavalieri erranti son trascinati al nord. Quante volte avrei voluto tenerti vicino e quante volte negli ultimi anni della tua  vita avrei preferito vederti trascinare in catene, piuttosto che vederti morire  lentamente, gtroppo malato e solo per far paura ai fascisti. Il confino per te sarebbe stato un segno vitale, ti avrebbe tenuto in vita per anni.
-         Quanti soldati fucilati, bastava avessi un accento strano.
La natura è parta di noi stessi. Mai strappare un filo d’erba se non è necessario alla nostra esistenza. Ricorda. Quel tuo “Ricorda” detto fra due pause, dolce e forte. Anche la morte è vita, non c’è alcun diaframma da abbattere , non è una strada che si interrompe. La vita continua negli altri, non muori se gli altri continuano a vivere. Poi a distanza di giorni, a volte di settimane riprendevi il discorso come se l’avessi interrotto un attimo prima, forse mi davi il tempo per ripensare e riflettere sulle tue parole. Qual è il senso del mito di Noè e della sua arca.
Noè   è l’umanità. Ti ascoltavo incantato, parlavi pacato e trasmettevi un senso caldo di serenità. L’uomo salva tutti gli animale per salvare se stesso, un destino comune lega tutti gli essere viventi. Com’è bella l’immagine di tutta la natura chiusa per un breve periodo in uno spazio ristretto. Le lotte, necessaria alla sopravvivenza, vengono messe da parte, c’è un unico nemico da battere.
-         Morti, quanti ne ho visti nella mia vita.
La morte ci ritornavi sovente negli ultimi solitari anni della tua vita, ne parlavi pacatamente. Ti interrogavi, forse ti preparavi. Non bisogna pensare molto all’al di là, dicevi, si rischia di scordarsi dei questioni di questa vita.
Giuseppe si era addormentato col capo poggiato al muro e reclinato sulla spalla, la bocca aperta russava. Manlio gli allungò la coperta sulle gambe e si raggomitolò alla meglio cercando spazio per le gambe. La luna filtrava attraverso il finestrino, mandava bagliori nel catino con l’acqua. Non era prudente che il vecchio andasse via. Doveva essere una notte chiara, con la luna molta alta nel cielo, vento e grosse nuvole bianche spazzate via, difatti il riflesso della luna a tratti spariva.
Ricordava una sera simile, una delle ultime trascorse col babbo. Erano seduti sul muretto fuori casa, dall’interno la mamma sbrigava le ultime incombenze della giornata. Lisa era già andata. Un grosso cane randagio comparso d’improvviso l’aveva spaventato.
-       Non temere. Aveva detto Arturo.
Manlio, come per giustificare la sua paura – E' brutto disse.
-       Nulla è brutto in natura. Il brutto è una categoria inventata dai potenti.
Seguì il solito lungo silenzio, inseguiva nel cielo tra le nubi un mondo diverso. Manlio cercava di riflettere su quelle parole, ma non riusciva a far altro che ripeterle dentro di sé senza riuscire a dare un senso.
- Perché se è contro il popolo – Manlio parlava del fascismo – tanta gente anche povera gente è con loro?
Silenzio e conflitti nella sua anima, anche il silenzio era una risposta.
-       A noi – diceva poco dopo, rafforzando quel noi – tocca tenere accesa questa fiamma. Guai a farla spegnere, un giorno dovremo renderne conto a tutti, anche a chi oggi è con loro.

lunedì 23 maggio 2011

QUARTO FOGLIO

Sognò del babbo. In una caverna stretta appena per un uomo, ma lunga, tanto da non vedersi l’uscita. O forse era buio anche fuori. Erano seduti a terra Manlio e suo padre, uno di fronte all’altro. Arturo soffiava su un focherello per tenerlo acceso, più che una fiamma era appena un piccolissimo punto di ignizione. Manlio scuoteva la testa.
-         Ma babbo non vedi è inutile si sta spegnendo.
Arturo lo guardava con aria di rimprovero.
-         Un giorno – rispondeva – Lisa tornerà, allora guai se il fuoco sarà spento.
Venivano poi scaraventati fuori dalla grotta, in una radura, c’era un gran falò acceso tra i pini e c’era Lisa. Tutti ballavano al chiarore delle fiamme ed al suono di una fisarmonica e di due chitarre. La musica era quella di Addio Lugano, ma il ritmo era vivace, non triste come la fischiettava Arturo. Ballavano tutti, perfino la mamma. Uberto, il biondo, il pingue, e tante altre persone sconosciute, forse anche Giuseppe. Ballavano, o fermi scandivano il ritmo con le mani. Il babbo col fiocco nero e Lisa con le guance di fuoco.
Si svegliò sudato. Si guardò introno per raccapezzarsi, era smarrito. L’ultima luce del giorno filtrava a pena dai finestrini. Si sentiva pesante, gambe e braccia gonfie, sfinito. Stava scaricando su quella branda giorni di tensione, notti trascorse ad occhi aperti, sonni agitati. Lo scoppio e la fuga, l’ultima corsa e l’incontro con Giuseppe.
Se non fossi scappato davanti ai fascisti forse non mi avrebbero neppure notato. Con quello che passano in questi giorni. Figurati un attentato in provincia. Non l’avranno neppure saputo.
Se avesse buttato la sua rabbia, al di là di quel davanzale, invece della bomba avrebbe certo fatto  più danni.
E poi Giuseppe e chi lo conosce posso fidarmi.
Gli prese una strana agitazione alle gambe, come da piccolo quando pensava alla morte.
Forse è meglio che scappi. Sì devo andare.
Si alzò. Si risedette.
Ma dove vado. Devo fidarmi e poi sono stanco, non posso far altro che fidarmi. Ma è sera perché non viene?


domenica 15 maggio 2011

TERZO FOGLIO

Aveva sentito qualcuno correre in strada, che fosse Giuseppe? Ma i passi si erano poi dileguati, si era ripreso a sparare, pochi colpi ma vicini. Oramai si sparava per le strade.
Giuseppe l’aveva incontrato per caso dopo l’attentato. Era fuggito col proposito di raggiungere Milano e forse la Svizzera. Aveva invece dovuto scegliere Genova, più facile da raggiungere. Si era recato all’indirizzo di un vecchio compagno del babbo, ma come poteva sperare di trovarci qualcuna dopo quasi vent’anni.
La zona nella quale era capitato era quasi completamente evacuata e distrutta dai bombardamenti. Cercava di ritornare verso la ferrovia, ma il suo fare guardingo l’aveva tradito, aveva destato l’attenzione di un gruppo di fascisti, prima ancora che gli intimassero di fermarsi Manlio si era girato velocemente su se stesso e aveva preso a correre, aveva udito un Fermo! Il crepitare di un fucile, aveva gettato la valigia che portava e che l’appesantiva nella corsa, correva quasi ad occhi chiusi, aspettava di sentire da un momento all’altro un proiettile entrargli nella carne, era certo che sarebbe morto. Aveva svoltato in una strada buia e gettatosi al riparo di un portone. Tratteneva il respiro, sentì la squadra passare di corsa, attese ancora e quando fu certo che non sarebbero più tornati a cercarlo si gettò a sedere sfinito sui gradini.
Il sangue gli ronzava nelle orecchie, la vista gli si era annebbiata per  la fatica della breve ma rapida corsa. Respirò profondamente più volte e a bocca aperta, solo quando il cuore tornò ai suoi battiti regolari si guardò intorno per capire dov’era finito. Fu allora che lo vide e sobbalzò.
-         Chi sei?
-         - Non hai nulla da temere. – Parlava affannando quasi come se avesse fatto la setssa corsa di Manlio.
-         Perché ti cercano? Hai disertato?
-         - No – rispose Manlio – Una  storia di attentati.
-         - Un partigiano allora.
-         Manlio non rispose, non poteva far altro che fidarsi.
Giuseppe aveva passato la sessantina, figura di contadino dal viso scavato, scuro e rugoso come la terra, capelli bianchi e radi, barba non curata, occhi scuri. Aveva mani grosse e nocchiute, gambe arcuate, emanava odore di terra, sudore e tabacco. Parlava a fatica soffermandosi sulle parole.
Condusse Manlio per strade strette e buie, tra case diroccate. Incrociarono qualcuno che Giuseppe salutò con un cenno d’intesa. Poi attraversarono un portone, scesero una mezza dozzina di gradini, per trovarsi dopo aver aperto una porta bassa e pesante, un seminterrato. Era largo non più di quattro metri per cinque, due finestrini in alto sulla parete proprio di fronte all’entrata, davano sulla strada, o meglio sotto la strada, entrava poca luce che a malapena illuminava l’ambiente. Addossata alla parete destra, in modo tale che la porta aprendosi lo nascondeva, un pagliericcio, un cuscino e qualche coperta di chiara provenienza militare. Accanto al letto un lume, spento, forse inutilizzabile, una cassa di legno di quelle per la frutta, rivoltata, faceva da tavolino e comodino, in un angolo una brocca d’acqua ed un bacile smaltato bianco su un treppiede ossidato. Il pavimento di terra battuta sudava umidità, così come le pareti, l’insieme freddo e squallido.
Manlio si strinse nelle giacca come per ripararsi dal freddo che l’ambiente incuteva. Giuseppe quasi in risposta al suo gesto:
-         Non è un granché, ma ci starai al sicuro finché vorrai.  Ci stava mio figlio per sfuggire ai rastrellamenti. Finché è stato quaggiù era al sicuro, l’hanno preso fuori di qui.
-         Non hai paura per te?
Erano le prime parole che Manlio pronunciava da quando erano entrati nel sottoscala.
-         Non saprebbero che farsene di me. Sono vecchio. Ma anche con l’età e il fiatone faccio più di quello che loto credono – disse ammiccando – E’ ora che vada.
Manlio sentì vuoto a quelle parole.
-         Tornerò prima di sera. – Lo rassicurò Giuseppe – porterò qualcosa da mangiare.
Ma il vuoto in Manlio non si colmò.
-         E’ proprio tempo che vada. Non accendere la lampada, seppure funziona.
Poi indicando il retro della porta alla quale si era intanto avvicinato.
-         C’è la chiave.
Aprì la porta e la rinchiuse con cautela alle sue spalle.
Manlio sentì i passi strascicati farsi sempre più lontani, poi il silenzio ‘afferrò all’improvviso, era rimasto in piedi fino ad allora, immobile nello stesso punto evitando di guardarsi intorno. L’umidità colava lungo le pareti. Si sedette sulla branda, batteva i denti, si coprì con le coperte, lo prese un sonno agitato.

domenica 8 maggio 2011

SECONDO FOGLIO

Il padre di Manlio era uomo alto e possente, sano apparentemente e pur minato da una malattia di cuore che lo portò ancor giovane alla morte. I suoi attacchi Manlio li ricordava ancora con lucida angoscia, nonostante il tempo trascorso: sbiancava, sudava e ansimava portandosi le mani al petto, si piegava in due – Giovanna – chiamava, e la moglie lo aiutava a stendersi.
Ogni crisi può essere l'ultima, aveva sentenziato il dottor Edmondi, e lei, Giovanna, esile precocemente invecchiata, con quello strano viso, le guance lisce e bianche, quasi da bimba e la fronte così rugosa e pensosa, i capelli bianchi legati alla nuca, gli occhi tristi energici e dolci quando guarda il marito. Scuoteva il capo, con la mano carezzava la testa alla piccola Lisa, inutilmente scompigliandole i capelli ispidi e corti.
-       Vai fuori a giocare – le diceva – che noi - quel noi comprendeva anche Manlio – dobbiamo parlare col medico.
Il paese dove Manlio era nato e vissuto fino a quaranta giorni prima dell'inizio di questa storia  era al centro delle strade che dal nord portavano verso Roma. Di lì erano passati, in quell'ottobre del 1922 decine di mezzi carichi    di fascisti. Anche dalla piazza del paese ne era partito uno, pagato da Quirino, che aveva il bar  in piazza proprio di fronte al municipio. L’anno dopo avrebbe cambiato nome si sarebbe chiamato Caffè Nuova Italia. Anche di treni ne erano passati e da casa di Manlio, un centinaio di metri in linea d’aria dai binari, si udivano alte le grida e i canti. Il padre aveva uno dei suoi attacchi. Lisa  dormiva del suo abituale sonno agitato che all’improvviso si trasformava in singulto affannoso e poi in tosse, la piccola si svegliava con gli occhi lucidi. Quella notte, nei ricordi di Manlio fu la notte dei presagi.
Degli anni precedenti quel ’22 ricordava poco del babbo. Fino al 1919 operaio nei cantieri della vicina città, ne era stato poi cacciato era anarchico e per giunta ammalato. Tornato al paese riaprì bottega che già era stata del nonno.
Di quegli anni Manlio ricordava i  compagni di Arturo, tale era il nome del babbo, che andando verso Roma o facendo il percorso a ritroso si fermavano a salutare il vecchio compagno. Ore a discutere chiusi nel retrobottega per poi vederli ripartire col desiderio inconfessato di seguirli.
Dei compagni del babbo ne ricordava uno in particolare, rosso di capelli, bolognese, tale Uberto o forse Umberto, voce grossa ma di poche parole, ciglia e sopracciglia rosse  e folte, lentigginoso come un bambino, pochi peli sul mento, che usava lisciare ascoltando Arturo. Commerciante o forse commesso viaggiatore arrivava sempre sul tardi, si tratteneva a cena e ripartiva al mattino di buon ora. L’unico tra i compagni del babbo che si fermasse a dormire in casa.
Anche quella sera del ’24, una serata calda di piena estate, Uberto era giunto sul calare del pomeriggio. Non era solo stavolta, insieme ad altri due, uno esile, dal viso scavato, pallido e biondiccio, con grandi occhi verdi, portava il fiocco nero degli anarchici. L’altro dolcemente pingue, con grosse labbra ed una piega alla bocca, sembrava sorridesse sempre. Nel dopocena Manlio li udì parlare di Matteotti, adesso avevano varcato il segno, sicuramente si sarebbe dimesso.
Al mattino seguente i tre erano ripartiti, Arturo prese Lisa per mano, chiamò Malino.
-         Niente Bottega oggi. – disse spavaldo. Li condusse sul corso, camminava fiero e spedito col suo fiocco nero, sembrava non affannare. Poi nel bar di  Quirino.
-         - Bella giornata vero? – disse calcando la voce su bella. Quirino rispose con un mezzo grugnito, non colse l’ironia e più probabilmente cogliendola evitò di rispondere.
-         Dia a questa bimbetta ciò che vuole.
Lisa cogli occhi lucidi e le guance infuocate, confusa per la inconsueta prodigalità paterna scelse qualche pasticcino. Rifecero il corso all’incontrario, sempre la con la stessa spavala andatura, fischiettando Addio Lugano.
Ma le cose non erano andate come Arturo supponeva, i mesi trascorsero tra le visite sempre più rade e veloci di Uberto e di altri compagni. Tra la malattia di Lisa e gli attacchi sempre peggiori di Arturo.
Nel ’27 Lisa morì, il babbo pianse .
Erano anni che Lisa stava male. L’idea che sarebbe venuta a mancare era già in noi da tempo, eppure lasciò un vuoto nella casa quale mai ci saremmo aspettati. Non una lacrima uscì dagli occhi di mia madre. Il suo volto sempre più pallido e scavato era duro come il marmo. Ma io so che avrebbe voluto piangere. La vedevo errare per casa, mettere a posto gli abitini di Lisa come se lei fosse ancora viva.
Non trascorse nemmeno un anno che il babbo morì. Le sue ultime parole, con quanta fatica le pronunciò, e che suono avevano sembrava provenissero giò da un altro mondo, furono – non voglio preti.-. Il suo ultimo sguardo fu per la mamma, credo che mai l’abbia amata tanto.
La mamma combattuta fra l’ultima volontà del marito e la sue fede religiosa, fece venire un prete a benedire la salma e poi avvertì Uberto perché venisse a dirgli addio.
E vennero a salutarlo. Uberto, il biondiccio, il pingue ed altri che non avevo mai visto, o appena intravisto negli anni passati. Le esequie percorse il breve tratto verso il cimitero in una calura incredibile, passarono, con una piccola bandiera rossa e nera, sotto lo sguardo indifferente di pochi fascisti, qualcuno si segnò, Quirino tenne bassa la saracinesca e fece il segno della croce. Il piccolo corteo evitò il rituale giro del paese, svoltando a destra passò sotto il ponte della ferrovia e giunse al cimitero.
I compagni si trattennero fino a tardi in attese del treno, seduti sul muretto del cortile di casa. Di tanto in tanto giungeva il fischio del treno. Mi parlarono a lungo del babbo. Degli scioperi, degli arresti. Pur nella diversità dei dialetti, nei timbri di voce così diversi, diversi forse anche per cultura, avevano una stessa maniera di raccontare, gesti, vocaboli simili dai quali traspariva una comunanza di idee, sogni, ma anche paura e disillusioni. Erano malinconici, aveva nostalgia per luoghi visti ed episodi vissuti. Ascoltandoli, attraverso le loro parole per la prima volta compresi mio padre. Certo l’avevo amato ma non l'avevo mai capito.

martedì 3 maggio 2011

PRIMO FOGLIO

Anche oggi Giuseppe non si era visto, cosa gli era accaduto? Non voleva proprio capirlo che aveva bisogno di lui, come l’aria, che in quel maledetto sottoscala gli mancava. Come la luce, erano quasi quaranta giorni, stramaledetti giorni che non vedeva la luce del sole, che non vedeva altri visi se non quello di Giuseppe. E poi cos’era? Da due giorni non si sentiva più sparare, non si udiva il vociare delle persone su in strada. E intanto quel dannato vecchio non si faceva vedere.
Si alzò dal pagliericcio, scagliò il fiasco ormai vuoto contro la parete. Il fragore dei cocci risuonò il quell'assurdo silenzio come una bomba, ne seguì un silenzio ancora più inverosimile.
Manlio si immobilizzò, tese l'orecchio, che qualcuno avesse avvertito la sua presenza e potesse denunciarlo? Attese ancora qualche momento, teso, fermo, udiva distintamente il pulsare del cuore, guardò verso il lucernario in alto sulla parete, poi si ributtò sulla branda.
Aveva trentacinque anni, ma quanti ne dimostrava? Era tempo che non si radeva, probabilmente puzzava, l'acqua nel bacile smaltato era divenuta opaca, aveva fame, o forse non era la fame che gli attanagliava lo stomaco. Tre giorni a rimuginare con sé stesso, si sentiva vecchio. Negli ultimi quaranta giorni della sua esistenza aveva consumato tutta la sua vita, l'aveva ripensata e narrata a Giuseppe.
Era stato nella gran parte dei suoi trentacinque anni di vita come un serbatoio, in cui aveva accumulato sentimenti, odi, passioni, contro la sua stessa volontà o forse con passiva indifferenza. Il suo io profondo aveva osservato catalogato, sistemato in zone recondite della sua anima immagini, emozioni, avvenimenti grandi e piccoli, collettivi e personali, collegandoli e correlandoli tra loro in una maniera che lui stesso non comprendeva. Aveva l'impressione di  aver compresso in se qualcosa di immenso, ma gli mancavano gli strumenti per renderlo conoscibile a se stesso e agli altri. Gli mancava il grimaldello, o forse una levatrice. La notte precedente aveva sognato, già i sogni come erano importanti nella sua vita, aveva sognato di partorire con grandi dolori, Giuseppe faceva da ostetrico, gli saltava sulla pancia, gli urlava di spingere. Manlio sentiva la pelle del ventre stirarsi, voleva scoppiare come una vescica piena d'acqua. S'era svegliato con la sensazione del dolore.

INTRODUZIONE

Fu agli inizi degli anni settanta che conobbi Manlio. Io avevo circa venti anni e lui gli anni che ho io adesso. Era un tecnico di impianti per linee di confezionamento automatico per prodotti alimentari. Simpatizzammo dal primo momento, quando il suo lavoro finì e ritornò nella sua città del centronord, mi regalò una copia della Costituzione: -è una guida- mi disse -da tenere sul comodino.
Nei mesi che lavorò presso l’azienda per la quale anch’io lavoravo, trascorremmo molto tempo insieme, pranzavamo sempre insieme e spesso mi invitava a cena, trascorremmo anche qualche domenica insieme in visita in costiera o nel centro di Napoli.
Mi raccontò la sua avventura nel corso della seconda a guerra mondiale ed io tornando di sera a casa la trascrivevo con la mia piccola olivetti 22. Inserivo una copiativa tra due fogli, come è più comodo il computer, mi tenevo l’originale e davo a lui la copia.
Sono trascorsi quarant’anni e passa, ho ripreso quei fogli per condividerli sul web.
Credo che Manlio non ci sia più da tempo, ma se qualcuno capitasse per caso su questo blog e si riconoscesse nel protagonista di questa avventura mi scriva.