domenica 8 maggio 2011

SECONDO FOGLIO

Il padre di Manlio era uomo alto e possente, sano apparentemente e pur minato da una malattia di cuore che lo portò ancor giovane alla morte. I suoi attacchi Manlio li ricordava ancora con lucida angoscia, nonostante il tempo trascorso: sbiancava, sudava e ansimava portandosi le mani al petto, si piegava in due – Giovanna – chiamava, e la moglie lo aiutava a stendersi.
Ogni crisi può essere l'ultima, aveva sentenziato il dottor Edmondi, e lei, Giovanna, esile precocemente invecchiata, con quello strano viso, le guance lisce e bianche, quasi da bimba e la fronte così rugosa e pensosa, i capelli bianchi legati alla nuca, gli occhi tristi energici e dolci quando guarda il marito. Scuoteva il capo, con la mano carezzava la testa alla piccola Lisa, inutilmente scompigliandole i capelli ispidi e corti.
-       Vai fuori a giocare – le diceva – che noi - quel noi comprendeva anche Manlio – dobbiamo parlare col medico.
Il paese dove Manlio era nato e vissuto fino a quaranta giorni prima dell'inizio di questa storia  era al centro delle strade che dal nord portavano verso Roma. Di lì erano passati, in quell'ottobre del 1922 decine di mezzi carichi    di fascisti. Anche dalla piazza del paese ne era partito uno, pagato da Quirino, che aveva il bar  in piazza proprio di fronte al municipio. L’anno dopo avrebbe cambiato nome si sarebbe chiamato Caffè Nuova Italia. Anche di treni ne erano passati e da casa di Manlio, un centinaio di metri in linea d’aria dai binari, si udivano alte le grida e i canti. Il padre aveva uno dei suoi attacchi. Lisa  dormiva del suo abituale sonno agitato che all’improvviso si trasformava in singulto affannoso e poi in tosse, la piccola si svegliava con gli occhi lucidi. Quella notte, nei ricordi di Manlio fu la notte dei presagi.
Degli anni precedenti quel ’22 ricordava poco del babbo. Fino al 1919 operaio nei cantieri della vicina città, ne era stato poi cacciato era anarchico e per giunta ammalato. Tornato al paese riaprì bottega che già era stata del nonno.
Di quegli anni Manlio ricordava i  compagni di Arturo, tale era il nome del babbo, che andando verso Roma o facendo il percorso a ritroso si fermavano a salutare il vecchio compagno. Ore a discutere chiusi nel retrobottega per poi vederli ripartire col desiderio inconfessato di seguirli.
Dei compagni del babbo ne ricordava uno in particolare, rosso di capelli, bolognese, tale Uberto o forse Umberto, voce grossa ma di poche parole, ciglia e sopracciglia rosse  e folte, lentigginoso come un bambino, pochi peli sul mento, che usava lisciare ascoltando Arturo. Commerciante o forse commesso viaggiatore arrivava sempre sul tardi, si tratteneva a cena e ripartiva al mattino di buon ora. L’unico tra i compagni del babbo che si fermasse a dormire in casa.
Anche quella sera del ’24, una serata calda di piena estate, Uberto era giunto sul calare del pomeriggio. Non era solo stavolta, insieme ad altri due, uno esile, dal viso scavato, pallido e biondiccio, con grandi occhi verdi, portava il fiocco nero degli anarchici. L’altro dolcemente pingue, con grosse labbra ed una piega alla bocca, sembrava sorridesse sempre. Nel dopocena Manlio li udì parlare di Matteotti, adesso avevano varcato il segno, sicuramente si sarebbe dimesso.
Al mattino seguente i tre erano ripartiti, Arturo prese Lisa per mano, chiamò Malino.
-         Niente Bottega oggi. – disse spavaldo. Li condusse sul corso, camminava fiero e spedito col suo fiocco nero, sembrava non affannare. Poi nel bar di  Quirino.
-         - Bella giornata vero? – disse calcando la voce su bella. Quirino rispose con un mezzo grugnito, non colse l’ironia e più probabilmente cogliendola evitò di rispondere.
-         Dia a questa bimbetta ciò che vuole.
Lisa cogli occhi lucidi e le guance infuocate, confusa per la inconsueta prodigalità paterna scelse qualche pasticcino. Rifecero il corso all’incontrario, sempre la con la stessa spavala andatura, fischiettando Addio Lugano.
Ma le cose non erano andate come Arturo supponeva, i mesi trascorsero tra le visite sempre più rade e veloci di Uberto e di altri compagni. Tra la malattia di Lisa e gli attacchi sempre peggiori di Arturo.
Nel ’27 Lisa morì, il babbo pianse .
Erano anni che Lisa stava male. L’idea che sarebbe venuta a mancare era già in noi da tempo, eppure lasciò un vuoto nella casa quale mai ci saremmo aspettati. Non una lacrima uscì dagli occhi di mia madre. Il suo volto sempre più pallido e scavato era duro come il marmo. Ma io so che avrebbe voluto piangere. La vedevo errare per casa, mettere a posto gli abitini di Lisa come se lei fosse ancora viva.
Non trascorse nemmeno un anno che il babbo morì. Le sue ultime parole, con quanta fatica le pronunciò, e che suono avevano sembrava provenissero giò da un altro mondo, furono – non voglio preti.-. Il suo ultimo sguardo fu per la mamma, credo che mai l’abbia amata tanto.
La mamma combattuta fra l’ultima volontà del marito e la sue fede religiosa, fece venire un prete a benedire la salma e poi avvertì Uberto perché venisse a dirgli addio.
E vennero a salutarlo. Uberto, il biondiccio, il pingue ed altri che non avevo mai visto, o appena intravisto negli anni passati. Le esequie percorse il breve tratto verso il cimitero in una calura incredibile, passarono, con una piccola bandiera rossa e nera, sotto lo sguardo indifferente di pochi fascisti, qualcuno si segnò, Quirino tenne bassa la saracinesca e fece il segno della croce. Il piccolo corteo evitò il rituale giro del paese, svoltando a destra passò sotto il ponte della ferrovia e giunse al cimitero.
I compagni si trattennero fino a tardi in attese del treno, seduti sul muretto del cortile di casa. Di tanto in tanto giungeva il fischio del treno. Mi parlarono a lungo del babbo. Degli scioperi, degli arresti. Pur nella diversità dei dialetti, nei timbri di voce così diversi, diversi forse anche per cultura, avevano una stessa maniera di raccontare, gesti, vocaboli simili dai quali traspariva una comunanza di idee, sogni, ma anche paura e disillusioni. Erano malinconici, aveva nostalgia per luoghi visti ed episodi vissuti. Ascoltandoli, attraverso le loro parole per la prima volta compresi mio padre. Certo l’avevo amato ma non l'avevo mai capito.

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